Description
Ancora una volta, il teologo Halík ci invita a una riflessione delle sue, a lasciare cioè i nostri comodi sentieri e a trovare un ‘terreno santo’ in luoghi del tutto inaspettati. Come già per Zaccheo, che l’autore, nel suo precedente Pazienza con Dio, aveva preso a simbolo di tutti quelli che pur non essendo credenti cercano Dio con la passione del cuore, qui è l’apostolo Tommaso a divenire figura emblematica di un percorso di fede.
Tommaso l’incredulo è per Halík non il biasimevole esempio di una fede incapace di sostenersi senza conferme umane, bensì lo spunto per un pensiero teologico della ‘non-indifferenza’, disposto a ‘toccare le ferite’, anzi a mettere esattamente al centro i feriti del mondo per cercare il Dio della croce. «Non credo», egli dice, «in fedi ‘senza ferite’», in cui mancano i ‘segni dei chiodi’. E ancora: «Non credo in divinità che passano danzando per questo mondo senza essere toccate dal suo dolore… Il mio Dio è un Dio ferito».
Ecco allora questo libro, scritto nella quiete di un eremo di montagna, ma nato dalla vista di bambini con gli occhi febbricitanti e i ventri gonfi in un orfanotrofio di Madras, in India, che diventa per lui la ‘porta dei feriti’, l’accesso al costato di Cristo in cui affondare le mani per non essere più incredulo ma credente.
In quattordici piccoli capitoli, il numero delle stazioni della Via Crucis, Halík segue questa intuizione riprendendo ricordi di viaggi (oltre che in India, a Gerusalemme, ad Auschwitz, a Ground Zero), letture di pensatori amati (da Nietzsche a Simone Weil), esperienze politiche e culturali vissute nel suo Paese. Una lettura coinvolgente, che ci muove a uscire dai recinti tranquilli in cui così spesso rinchiudiamo la nostra fede.
Tommaso l’incredulo è per Halík non il biasimevole esempio di una fede incapace di sostenersi senza conferme umane, bensì lo spunto per un pensiero teologico della ‘non-indifferenza’, disposto a ‘toccare le ferite’, anzi a mettere esattamente al centro i feriti del mondo per cercare il Dio della croce. «Non credo», egli dice, «in fedi ‘senza ferite’», in cui mancano i ‘segni dei chiodi’. E ancora: «Non credo in divinità che passano danzando per questo mondo senza essere toccate dal suo dolore… Il mio Dio è un Dio ferito».
Ecco allora questo libro, scritto nella quiete di un eremo di montagna, ma nato dalla vista di bambini con gli occhi febbricitanti e i ventri gonfi in un orfanotrofio di Madras, in India, che diventa per lui la ‘porta dei feriti’, l’accesso al costato di Cristo in cui affondare le mani per non essere più incredulo ma credente.
In quattordici piccoli capitoli, il numero delle stazioni della Via Crucis, Halík segue questa intuizione riprendendo ricordi di viaggi (oltre che in India, a Gerusalemme, ad Auschwitz, a Ground Zero), letture di pensatori amati (da Nietzsche a Simone Weil), esperienze politiche e culturali vissute nel suo Paese. Una lettura coinvolgente, che ci muove a uscire dai recinti tranquilli in cui così spesso rinchiudiamo la nostra fede.