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«L’economia globalizzata produce sempre più beni che hanno bisogno di acquirenti; ma la stessa economia ha bisogno di mettere i lavoratori in competizione tra loro, abbattendone il più possibile i salari: da qui quello che possiamo definire il paradosso del lavoratore, al quale si chiede di spendere molto, guadagnando poco». Il lavoro: condanna biblica o strumento di realizzazione personale? Partendo dal famoso aneddoto della fabbrica di spilli di Adam Smith, e attraverso le parole di alcuni grandi pensatori del Novecento e non solo, gli autori si interrogano sull’evoluzione del rapporto tra il sistema di produzione capitalistico e il più importante dei fattori produttivi, l’uomo. Negli ultimi due secoli il progresso tecnologico e la crescente globalizzazione dei mercati hanno infatti provocato enormi aumenti di efficienza produttiva, molto superiori all’incremento demografico. Questi ultimi tuttavia non sempre hanno determinato un aumento del benessere degli individui. La «mano invisibile» del mercato tende, paradossalmente, a trasformare lo sviluppo tecnologico in incrementi nell’offerta da una parte, e in disoccupazione dall’altra, piuttosto che in tempo libero e qualità della vita dei lavoratori. A livello macroeconomico, questo si traduce nella rincorsa sfrenata al Pil e al profitto, a discapito della sostenibilità sociale, ambientale e perfino economica del sistema: la sovrapproduzione richiede infatti un sostegno alla domanda che passa attraverso l’indebitamento e la finanziarizzazione dell’economia, preludio delle sempre più gravi crisi che hanno sconvolto l’economia globale negli ultimi anni. La soluzione, secondo gli autori, passa attraverso un sistema economico più etico e sobrio che, privilegiando la persona, rispetto al lavoratore-consumatore, e prendendo ad esempio i più riusciti esperimenti di economia sociale (dal commercio equo e solidale alla finanza etica) sia in grado di produrre «valore a mezzo di valori».