Descrizione
Nel primo decennio del secondo dopoguerra, il Partito comunista italiano obbligava i suoi militanti a narrare pubblicamente e a scrivere un'autobiografia. Questa pratica era importata dall'Unione Sovietica, ma le sue radici erano ancora più antiche della rivoluzione d'Ottobre. Perché il partito rivolgeva alla propria base una simile richiesta? Perché i militanti aderivano senza riserve (almeno in apparenza) a una pratica che provocava anche sofferenza? Qual era l'intreccio tra la costrizione e il
desiderio di scrivere? Il libro intende rispondere a queste domande sulla base del più vasto fondo documentario esistente in Italia, che raccoglie oltre milleduecento autobiografie. La ricerca intreccia molteplici punti di osservazione: il rapporto tra la pratica autobiografica e la religione, l'uso della scrittura per la costruzione di rapporti gerarchici all'interno dell'organizzazione politica, i libri letti dai militanti nel loro percorso di formazione, gli scarti tra la narrazione e la norma che pretendeva di regolarla.
A cento anni dalla fondazione del Pci, torna in una nuova edizione un libro che ha esplorato nuove strade per ricostruire e raccontare la storia politica del dopoguerra. «Chi legge La fabbrica del passato – ha scritto Carlo Ginzburg nella prefazione – avrà a tratti l'impressione di immergersi in un libro di fantascienza: un'esperienza che l'aiuterà a guardare
con occhi nuovi l'enigmatico presente in cui viviamo».