Attraverso versi cupi e malinconici, Fabrizio Sani, giovane autore toscano, dipinge immagini evocative di tristezza e trasparenza: emergono temi quali l’amore difficile, l’inadeguatezza, il senso di abbandono, l’importanza dei ricordi. Filo conduttore è quel sentimento di malinconia che nasce insieme all’autunno. Le fragilità dell’uomo vengono qui sfiorate con delicatezza come foglie secche che si posano sul terreno.

Sono nato nel febbraio del 1994 a Montevarchi (Ar). Da quel giorno mi sforzo di capire chi sono, distratto e attratto dalla geografia che mi circonda. A diciannove anni la geografia che mi circondava è mutata in quella romana: mi sono iscritto all’Università Sapienza per studiare Arti e Scienze dello Spettacolo e ho respirato il caos e la folla della capitale. Da più di tre anni mi muovo assiduamente lungo questo versante degli Appennini per raggiungere Arezzo e poi tornare. Ho bisogno, a volte, del mio isolamento personale, di fissare il mondo da una campana di vetro. Leggo, vado al cinema e ai concerti: nutro i miei dubbi e le mie idiosincrasie. Prendo una gran quantità di aerei per fare mio quello che mio non è. Convivo tra l’urgenza di estraniamento e quella di socialità, consumata tra calcio, birre e luoghi comuni, insieme ad amici selezionati e diversi da me. Mi conosco ogni giorno perché ogni giorno mi trasfigura: scrivo poesie e prose per edificare nuovi nascondigli.