Description
Tutta la produzione artistica ha sempre come punto di partenza l’incontro con un “segno”, il quale si rivela fondamentale proprio perché ci costringe a pensare. Il costituirsi di una certa idea di gusto estetico ha finito per incarnarsi nel tipo sociale che edifica la propria identità prendendo parte agli eventi culturali con la stessa attenzione con cui si guardano le vetrine dei negozi. Questa è la diagnosi che viene ricostruita e contestata da Mario Autieri.
Una possibile teoria del riconoscimento dell’oggetto artistico non deve per forza avere questo esito negativo, ma può invece legarsi a forme creative di ripetizione e a strategie di costruzione retorica, senza prescindere dalle basi materiali dell’arte stessa. Chiamando in causa pensatori come Adorno, Derrida, Merleau-Ponty e Benjamin, nonché personalità quali il regista Lars von Trier, gli architetti Koolhaas e Le Corbusier e i musicisti Reich e Glass, l’autore cerca di spiegare perché una particolare forma di ripetitività non è un impoverimento dell’arte, ma piuttosto il modo in cui la vecchia aura dell’opera d’arte si è posata su dimensioni prettamente sensibili, come la costruzione del mood degli ambienti.
Biographical notes
Mario Autieri ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia contemporanea al SUM – Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze con una tesi sulla fenomenologia francese. Borsista dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, presso lo stesso istituto è stato relatore in convegni su Spinoza e Deleuze. È docente a contratto di Filosofia e insegna storia e filosofia nei licei statali dal 2008. Inoltre, è autore di volumi e saggi sul pensiero filosofico di Merleau-Ponty, Husserl, Deleuze e Foucault.