Descrizione
Una lectio divina sull'inno alla carità, caratterizzata dalla costante presenza di testi di san Francesco di Sales a commento delle parole ispirate di san Paolo. Come quest'ultimo, anche il grande vescovo e dottore della Chiesa ha una visione totalizzante dell'amore. E sa coglierne i diversi aspetti guardando sempre alla loro fonte prima e perenne, il Dio trinitario. La carità non è solo necessaria per piacere a Dio e al prossimo, ma è anche indispensabile per la vita quotidiana del semplice cristiano, dell'apostolo, del missionario.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
Mai come in questi anni le nostre comunità cristiane e di vita consacrata si sono tanto impegnate sul fronte della carità, a tutti i livelli e in varie forme, e mai come oggi hanno bisogno di riflettere sul vissuto per non smarrire la bellezza della figura evangelica della carità. Questo volumetto meditativo sull’inno di Paolo alla carità, secondo il metodo della lectio divina, centra dunque un bisogno oggi essenziale nella chiesa e merita il nostro plauso.
San Paolo nelle sue lettere torna spesso sul tema della carità. Aveva capito che la riuscita della vita cristiana risiede nella carità tra fratelli e sorelle nella fede. Alle comunità della Galazia egli scrive che la pienezza della legge è l’amore del prossimo (Gal 5,14s.); e per ‘prossimo’ intende qui i fratelli nella fede: «Pratichiamo il bene verso tutti, ma soprattutto verso i fratelli nella fede» (Gal 6,10).
Un testo paolino che sempre mi affascina nella Prima lettera ai Corinzi è: «Se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità non sarei nulla» (1 Cor 13,2). Queste parole possono valere come verità generale, che presuppone e insieme compendia tutto un ampio discorso sul valore fondante dell’amore per l’identità del cristiano sia nell’oggi della storia sia nell’éschaton. Questi due momenti si richiamano necessariamente l’un l’altro: da una parte è vero che, se l’amore è determinante per definire oggi la persona religiosa, esso deve anche essere coestensivo alla sua esistenza e quindi durare indefinitamente; ecco perché poche righe dopo, nella stessa pagina paolina, si legge che «l’amore non avrà mai fine» (13,8); dall’altra parte è certamente anche vero che, se l’amore non verrà mai meno in futuro, è segno che di esso davvero non si può fare a meno neanche nel presente. Infatti, come si sa, ciò che non ha futuro è per natura caduco, mentre ciò che è eterno, come la parola di Dio, è essenziale.
Mi ha colpito molto ciò che ha detto Benedetto XVI il 6 ottobre 2008, durante il Sinodo dei vescovi sulla parola di Dio, quando ha affermato:
La parola di Dio è il fondamento di tutto, è la vera realtà. Dobbiamo cambiare la nostra idea che la materia, le cose solide, da toccare, sarebbero la realtà più solida, più sicura [...]. Solo la parola di Dio è fondamento di tutta la realtà, è stabile, è la realtà. Quindi dobbiamo cambiare il nostro concetto di realismo. Realista è chi riconosce nella parola di Dio il fondamento di tutto. Realista è chi costruisce la sua vita su questo fondamento che rimane in permanenza. Realista è chi scopre che cosa è la realtà e trova in questo modo il fondamento della sua vita, come costruire la vita.
Parlando di amore nella Scrittura e in san Paolo, dunque, parliamo di qualcosa che caratterizza la nostra vita alla radice, cioè semplicemente “ci fa essere”. Di quale amore si parla?
Ma qual è il significato del termine ‘amore’? La lingua greca utilizza tre vocaboli, ciascuno dei quali ha una sfumatura diversa.
Il primo, il più noto, è éros: cantato dai poeti, questo ‘amore’ è fatto oggetto di riflessione anche dai filosofi; tra questi spicca Platone che lo definisce sì di natura divina, ma come un dio imperfetto, figlio di Povertà e di Espediente, così da essere perennemente in tensione verso qualcosa di cui è privo (non solo in direzione orizzontale verso l’essere umano, ma anche in verticale verso Dio) e che vuole raggiungere a qualunque costo: è l’ebbrezza; se non è purificata, è degradazione dell’uomo.
Il secondo vocabolo è philía, ‘amore di amicizia’: ripensata soprattutto da Aristotele, suppone una eguaglianza tra coloro che la sperimentano ed è fondata sulla reciprocità, cioè sulla constatazione di qualcosa di amabile che viene condiviso come bene comune dai partner e che ciascuno dei due però riconosce nell’altro anche come utile per sé. Epicuro la definisce addirittura come «il bene più grande», che riproduce nel mondo le caratteristiche della vita degli dèi.
Il terzo vocabolo è agápé: genericamente ha significato di ‘affetto’; nel greco classico è un termine piuttosto raro e deriva dal verbo agapân che vuol dire soltanto ‘trattare con affetto, con cura, aver caro’. La cosa sorprendente è che, mentre nel Nuovo Testamento è omesso del tutto il primo dei tre termini e il secondo viene impiegato solo una volta in senso negativo (cfr. Gc 4,4: «Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio?»), è proprio il terzo vocabolo invece che è stato assunto dal linguaggio cristiano e arricchito enormemente, fino a significare sia l’amore di Dio verso l’uomo, sia l’amore del cristiano verso Dio, sia l’amore vicendevole tra i cristiani e verso gli esseri umani in generale. Questo caratterizza, in maniera del tutto originale e tipica, il Nuovo Testamento e quindi il cristianesimo, che nel latino tradurrà il termine greco agápé preferibilmente con caritas, ‘carità’.
Per comprendere esattamente l’importanza e il significato dell’amore (agápé) dal punto di vista biblico e cristiano, sbaglieremmo a partire dall’idea di un comandamento, come se l’amore fosse qualcosa di imposto dall’esterno. Del resto, anche solo a livello psicologico, si sa bene per esperienza che lo stesso amore umano non può essere comandato. Infatti, non c’è nulla di più personale e spontaneo dell’amore, che parte autonomamente dal di dentro: basta lasciarlo fare. Tutt’al più, a comandare l’amore dal punto di vista umano è l’amabilità del partner, cioè sono la sua bellezza, la sua intelligenza, la sua bontà. L’amore in senso cristiano, invece, cioè l’agápé, scatta là dove di desiderabile non c’è proprio nulla. Lo si vede sia nell’Antico Testamento, dove Dio dice a Israele: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli..., ma perché il Signore vi ama» (Dt 7,7s.), sia soprattutto nel Nuovo, dove Paolo scrive: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Km 5,8). Già da questi testi, e specie da san Paolo e dall’apostolo Giovanni, ricaviamo alcune caratteristiche dell’agápé assolutamente fondamentali per la nostra vita di persone credenti.